Nel maggio del 1982, mentre la campagna in Libano era ancora in corso, sei anziani riservisti dell’esercito, che erano stati fino ad allora in servizio in Cisgiordania (uno dei quali era stato anche insignito della medaglia al valore nella guerra del Kippur), protestarono pubblicamente contro le “misure repressive” che venivano adottate nei territori su ordine del ministro della Difesa Sharon. Fu in seguito a questa contestazione che nacque il movimento Shalom Akhshav (“Pace adesso”). Questo, oltre ad aver promosso le proteste avvenute a Tel Aviv in seguito alla guerra in Libano, organizzò una dimostrazione nella stessa Cisgiordania per contestare l’accelerazione della costruzione di insediamenti ebraici programmata da Sharon. Quest’ultimo, per evitare disordini, vietò il passaggio ai manifestanti.
La società israeliana era divisa. Il 10 febbraio del 1983, durante una manifestazione organizzata dal movimento Shalom Akhshav a Gerusalemme, una granata fu lanciata tra la folla uccidendo una persona, Emil Grunzweig, di soli 33 anni, ufficiale paracadutista nella guerra in Libano.
Nel settembre 1984, le elezioni del nuovo governo avevano avuto un esito incerto: fu formato dunque un esecutivo di unità nazionale. Il leader del partito Laburista Shimon Peres divenne Primo Ministro, con il suo rivale del partito del Likud, Yitzhak Shamir (ex leader del gruppo Lehi) al ministero degli Esteri. Due anni dopo, come parte di un accordo di rotazione dei ruoli, Shamir divenne primo ministro.
Il 9 dicembre del 1987 a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est (i cosiddetti “territori occupati” nel gergo internazionale) ebbe inizio l’Intifada (“rivolta”), la cosiddetta “rivolta delle pietre”. I palestinesi infatti si ribellarono all’occupazione militare non imbracciando armi, ma lanciando sassi per le strade contro l’esercito israeliano, scioperando, erigendo barricate con i copertoni delle automobili, assaltando e incendiando con mezzi rudimentali le caserme e le jeep dei militari israeliani.
Protagonisti dell’Intifada erano ragazzini alle soglie dell’adolescenza, e i soldati israeliani – presi in contropiede da un tipo di “guerriglia” così inconsueto e imprevisto – risposero alle pietre con gas lacrimogeni, proiettili di gomma e, in caso di pericolo di vita, con armi vere e proprie. Le autorità israeliane fecero inoltre eseguire migliaia di arresti, ma nulla riuscì a domare la rivolta, le cui immagini entrarono nelle case di tutto il mondo attraverso la televisione.
Le conseguenze politiche dell’Intifada si fecero sentire ben presto. Nel gennaio del 1988 gli Stati arabi, che si incontrarono a Tunisi, stabilirono un fondo per sostenere la ribellione. Il 31 luglio dello stesso anno re Hussein di Giordania rinunciò definitivamente alla Cisgiordania e a Gerusalemme Est, che gli erano state strappate nel 1967 con la Guerra dei Sei Giorni e cedette all’OLP il diritto di rivendicarli quali territori di un futuro Stato palestinese. Nell’agosto successivo tuttavia, nacque una nuova organizzazione palestinese, Hamas (“fervore”), che promuoveva la guerra santa contro Israele. Secondo il suo statuto ufficiale non solo Gaza e la Cisgiordania, ma tutti i territori che erano israeliani prima del 1967 erano territorio musulmano e dovevano essere “liberati”.
Nel novembre 1988 il Consiglio nazionale palestinese (cioè il parlamento in esilio dell’OLP), riunito ad Algeri, riconobbe la risoluzione n. 242 dell’ONU, ammettendo così implicitamente il diritto di Israele all’esistenza e proclamò inoltre l’indipendenza, per il momento del tutto virtuale, dello Stato palestinese. Una svolta epocale come questa fu indubbiamente favorita dall’attenuarsi della “guerra fredda” tra USA e URSS in seguito all’ascesa al potere in Unione Sovietica di Michail Gorbaciov nel 1985, e alla volontà da lui manifestata di risolvere al più presto le crisi regionali: proprio nel 1988 infatti Mosca annunciò l’inizio del ritiro delle proprie truppe dall’Afghanistan. Per gli Stati filo-sovietici del Medio Oriente questo significava che non potevano più contare su un appoggio concreto dell’URSS, destinata del resto a dissolversi nel giro di pochi anni, e che dovevano quindi le vie della politica anziché della lotta armata. La distensione fra URSS e USA, dunque, favoriva la pace anche in Medio Oriente.
In Israele, la cui opinione pubblica era profondamente divisa circa le misure da adottare contro l’Intifada, gli ambienti politici più avveduti si erano resi conto che le armi non erano più sufficienti per garantire la sicurezza del paese: occorreva riconoscere i diritti dei palestinesi e stabilire la pace sia con loro che con i paesi arabi vicini. Il ministro della difesa Yitzhak Rabin dichiarò che l’Intifada rappresentava “il desiderio di piccoli gruppi di scoprire la loro identità nazionale e pretendere la sua realizzazione”. Questo riconoscimento portò, gradualmente, all’apertura di negoziati diretti. Mentre si rifiutavano i colloqui con l’OLP che si trovava in Tunisia, la quale continuava ad effettuare atti terroristici, Israele iniziò ad avere contatti segreti con i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Contemporaneamente la diplomazia palestinese tentava, sempre segretamente, di ottenere un concreto appoggio americano alla propria causa.
In questo clima, la cosiddetta Guerra del Golfo intervenne a modificare l’assetto e gli equilibri del Medio Oriente, contribuendo indirettamente anch’essa, per una serie di circostanze che esamineremo, a favorire la pacificazione israelo-palestinese.