Passata la guerra del Kippur, in Israele si diffuse nuovamente il desiderio di un ritorno alla normalità. Si tentò dunque di trovare un compromesso sui territori conquistati nei conflitti degli anni precedenti. Sotto gli auspici degli Stati Uniti, il Segretario di Stato americano Henry Kissinger intraprese un’estenuante serie di viaggi nei paesi interessati nel conflitto, la cosiddetta Shuttle Diplomacy, grazie a cui raggiunse due accordi tra le parti in causa: la creazione di una zona demilitarizzata sulle Alture del Golan, sorvegliata dalle Nazioni Unite, e il disimpegno delle forze israeliane ed egiziane dal Sinai nel 1974, separate da una zona cuscinetto sotto il controllo dell’ONU.
Anche mentre questi primi passi verso una pacificazione erano in corso, l’OLP, comandata da Yasser Arafat, mise in atto dai suoi quartier generali situati in Giordania e Libano alcuni dei più sanguinosi attacchi terroristici avvenuti in Israele. In particolare in uno di questi, decine di civili furono uccisi, tra cui 20 bambini della scuola della città di Ma’alot, il 15 maggio 1974.
Qualche mese dopo, il 13 novembre 1974, Yasser Arafat prese parte per la prima volta ad un’assemblea dell’ONU. Nel suo storico discorso pronunciò queste parole: «Oggi sono venuto con un ramoscello di ulivo e un fucile da combattente per la libertà. Non lasciate che il ramoscello d'ulivo cada dalla mia mano». Gli storici definiscono questo cambiamento di linea politica “svolta moderata”: già in seguito alla repressione giordana del 1970 l’OLP e Arafat assunsero atteggiamenti almeno sulla carta più “moderati” e – nonostante gli attacchi dei feddayin più intransigenti, che non esitarono a scindersi dal movimento – cominciarono a perseguire le proprie finalità anche mediante i normali metodi diplomatici. Anzi, modificarono radicalmente l’obiettivo finale della loro lotta, rinunciando alla distruzione di Israele e rassegnandosi a rivendicare la creazione in Palestina di uno Stato binazionale arabo-ebraico. Soluzione da sempre rifiutata da Israele, che faceva (e fa tutt’oggi) del proprio carattere ebraico la base del Sionismo e la ragione della sua stessa esistenza. Malgrado la “svolta moderata”, l’OLP si rese protagonista di un altro attentato il 4 luglio del 1975: a Gerusalemme 13 passeggeri di un autobus rimasero uccisi quando il mezzo su cui viaggiavano incontrò sul suo cammino una trappola esplosiva.
L’attività diplomatica dell’OLP si incentrò nel ricercare la condanna del mondo per la stessa esistenza dello Stato ebraico. Il 10 novembre 1975 l’ONU, approvò una risoluzione con cui si associava il Sionismo al “razzismo”. Dopo la votazione, Israele fu condannato da tutti i 17 Stati arabi, da 13 Stati comunisti, 22 Stati dell’Africa sub-sahariana e altri 20 Stati tra cui Messico, Brasile, Turchia, India e Cina. Tra le nazioni che rifiutarono la risoluzione vi furono Inghilterra, Canada, Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, i quattro Stati scandinavi e tutti quelli dell’Europa occidentale tranne che il Portogallo (all’epoca in una fase marxista).
Israele tentò di far valere le sue ragioni mediante i suoi rappresentanti in tutto il mondo: ma l’occupazione di Gaza e del West Bank continuava a generare molte critiche, dato che Israele continuava a costruirvi propri insediamenti ed avamposti. Malgrado ciò, lo Stato ebraico continuava a cercare la pace con i suoi vicini. Gli arabi del sud del Libano beneficiarono di un’apertura dei confini grazie a cui 30 mila cristiani e musulmani libanesi entrarono in Israele tra il giugno del 1976 e l’aprile del 1978 per controlli medici.
Nell’estate del 1976, terroristi arabi dirottarono un aereo dell’Air France in volo tra Atene e Parigi, facendolo atterrare prima a Bengasi, in Libia, e poi a Entebbe, in Uganda, dove i passeggeri non-ebrei furono rilasciati mentre gli altri rimanenti ebrei, 98 in tutto, furono tenuti in ostaggio nell’aeroporto. In un’operazione rischiosa e audace denominata appunto Operazione Entebbe, l’IDF volò nella città ugandese e portò indietro gli ostaggi. L’ufficiale che diresse l’operazione, Yoni Netanyahu, rimase ucciso. Venti anni dopo suo fratello Benjamin sarebbe diventato Primo Ministro israeliano.
L’anno della svolta fu il 1977. Con un gesto del tutto inatteso il Presidente egiziano Anwar Sadat, che quattro anni prima aveva portato la sua nazione alla guerra contro Israele, atterrò all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv offrendo la pace al suo ex nemico. Lo sforzo di Sadat avvenne in seguito all’intenso lavoro negoziale della Gran Bretagna, dei paesi della Comunità Economica Europea (CEE), del Canada e del regno del Marocco, dove Moshe Dayan ebbe dei colloqui segreti con Re Hassan per tracciare la via del trattato di pace israelo-egiziano.
Dopo la visita di Sadat a Gerusalemme, i negoziati furono continui e costruttivi. Nel settembre 1978 a Camp David, vicino Washington, Sadat incontrò il nuovo Primo Ministro israeliano Menachem Begin. Con il presidente americano Jimmy Carter, Begin e Sadat firmarono un trattato di pace: Israele restituì la penisola del Sinai all’Egitto e fu stabilita un’“autorità eletta ed autonoma” a Gaza e in Cisgiordania, aprendo la via all’autodeterminazione araba palestinese.
Per il mondo arabo il trauma fu sconvolgente. Da quel momento l’Egitto venne condannato dai paesi “fratelli” per aver rotto il fronte comune antisionista. E la condanna comportò l’isolamento e l’espulsione dalla Lega Araba nel marzo del 1979. Nel groviglio dei problemi mediorientali il trattato faceva emergere due princìpi, destinati a consolidarsi nel corso degli anni: in primo luogo, il principio della possibilità di una “pace separata” tra Israele e un paese arabo, contro la tesi dell’URSS, dei paesi arabi suoi alleati e dell’OLP, che volevano una soluzione globale del conflitto, ossia una conferenza internazionale per la pace con la partecipazione di tutti i paesi interessati; in secondo luogo, il principio riassumibile nella formula “terra in cambio di pace”, in base al quale Israele si rese disponibile a restituire porzioni di territori conquistati nel ‘67 in cambio appunto di una pace duratura.