Già promosso a centro di traffici con l’Europa durante il protettorato francese, il Libano, ottenuta nel ‘46 la piena indipendenza, fece rapidi progressi economici: la posizione favorevole dei suoi porti lo trasformò in breve tempo in un luogo privilegiato del traffico di merci e di capitali fra l’Occidente e l’Oriente arabo. Accanto a una fiorente agricoltura di tipo mediterraneo si sviluppò un intenso turismo di lusso, stimolato anche da un sistema di banche compiacenti, che accettavano di buon grado i capitali in fuga dai paesi europei, i profitti petroliferi, nonché le somme cospicue di varia provenienza, depositate dalla clientela internazionale.
Beirut divenne pertanto il maggior mercato finanziario del Medio Oriente, nonché un centro commerciale, turistico e culturale di notevole importanza, sede di tre università (libanese, francese e americana). Divenne anche, però, una delle più attive capitali della corruzione e di ogni specie di traffici illeciti.
D’altra parte il boom economico, se aveva alimentato la crescita di una borghesia ricca, soprattutto cristiano-maronita (ma grandi fortune erano concentrate anche nelle mani di proprietari fondiari sunniti), aveva altresì accentuato gli squilibri sociali che sarebbero sfociati in una devastante guerra civile.
Riepiloghiamo brevemente le vicende e i motivi che in pochi decenni ridussero il Libano, già famoso come “Svizzera del Medio Oriente”, nelle condizioni disastrose in cui si trovava alla fine del ‘900.
Sotto mandato francese dal 1920, il Libano ottenne completa indipendenza nel 1946. Nel paese convivevano da secoli sunniti, sciiti, drusi e cristiani maroniti: comunità diverse per origine etnica e per religione.
Fino al 1975 la vita del paese si fondò su un accordo verbale – stipulato nel 1943 fra maroniti e sunniti e detto Patto Nazionale – che prevedeva una ripartizione delle cariche statali proporzionale alla consistenza numerica delle varie comunità. Così ai maroniti – che negli anni ‘40 erano maggioritari – toccò la presidenza della Repubblica, ai sunniti la presidenza del Consiglio, agli sciiti la presidenza della Camera.
Dopo la metà degli anni Cinquanta, il rapporto numerico fra le varie comunità subì però una modificazione, in quanto il tasso di crescita, benché non accertato da precise statistiche, era senz’altro molto più elevato tra i musulmani che tra i cristiani. Per questo motivo in Libano si evitavano i censimenti, ma per lo stesso motivo la consistenza numerica delle varie comunità fu sempre motivo di tensione. Tanto più che fra le comunità stesse esisteva una sorta di gerarchia economica: i cristiani maroniti formavano la classe più ricca del paese (banchieri e grandi commercianti dediti all’importazione e all’esportazione) e soprattutto avevano strettissimi legami con l’Europa e con l’Occidente in generale; fra i musulmani, gli sciiti rappresentavano lo strato più povero della popolazione, prevalentemente concentrato nel Sud del paese e alla periferia delle grandi città, mentre alcuni sunniti detenevano grandi proprietà terriere.
La prima rottura del Patto Nazionale avvenne nel ‘56 dopo la Crisi di Suez, quando i musulmani, incoraggiati e stimolati dal messaggio nazionalistico di Nasser cominciarono a pretendere poteri sempre più ampi. Divampò allora una vera e propria guerra civile, iniziata nel 1958 e risolta dall’intervento dei Marines americani.
Da quel momento si aprì per il Libano un periodo di grande sviluppo economico, tanto che il piccolo paese fu definito la “Svizzera del Medio Oriente”. A Beirut affluivano capitali da tutto il mondo, e soprattutto dai paesi del Golfo, arricchiti oltre misura dall’esportazione di petrolio.
Già nel ‘48-‘49, quando si costituì la Repubblica d’Israele, migliaia di profughi palestinesi si rifugiarono in Libano, ma solo dopo la Guerra dei Sei Giorni del ‘67 e dopo il Settembre Nero del ‘70, il Libano diventò per eccellenza il paese-rifugio di altre migliaia di profughi nonché dei gruppi armati palestinesi e del quartier generale dell’OLP.
Nelle zone in cui erano particolarmente numerosi (la regione di Tripoli di Siria a Nord e la regione meridionale confinante con Israele), si diceva persino che i Palestinesi avessero creato un vero e proprio Stato nello Stato.
L’arrivo dei profughi compromise il già fragile equilibrio tra le comunità: in particolare, le comunità musulmane approfittarono della pressione palestinese per chiedere un aggiornamento del Patto Nazionale e per potersi così assicurare la massima carica dello Stato. Dal canto loro, i cristiani maroniti furono colpiti da una sorta di “sindrome di accerchiamento”. In tale situazione, tutti cominciarono ad armarsi e ad organizzare eserciti di parte.
La famiglia Gemayel, la più importante della comunità maronita, aveva creato le proprie Falangi fin dal 1936 sul modello militare tedesco; ma anche i sunniti e i drusi della grande famiglia Jumblatt, vicini ai gruppi nasseriani e marxisti, si dotarono di milizie proprie.
Dopo alcuni scontri avvenuti nel ‘73, la situazione degenerò nell’aprile del ‘75 in conflitto aperto fra le Falangi maronite e i Palestinesi. Cominciò così la seconda guerra civile libanese, e nel giro di un anno i cristiani furono progressivamente piegati dall’offensiva del Palestinesi, dei sunniti e dei drusi. Intervennero allora le truppe siriane, chiamate nel ‘76 dal presidente libanese cristiano Suleyman Franjeh.
Decidendo di intervenire, la Siria perseguiva un duplice scopo: da un lato intendeva presentarsi come una vera e propria potenza regionale, in grado di determinare le sorti del Libano; dall’altro, mirava a sottoporre l’OLP di Arafat alla propria tutela. In sostanza il presidente siriano Assad aspirava a ricostruire la “Grande Siria”, che – prima dell’istituzione dei mandati – comprendeva anche il Libano.
Dal ‘76 fino all’82, proprio per la presenza delle truppe siriane, l’equilibrio fra il campo cristiano e il campo musulmano-palestinese rimase congelato nello status quo, mentre peraltro, lo strapotere delle milizie, ciascuna delle quali agiva a proprio arbitrio annullava di fatto l’autorità dello Stato libanese.
Determinante per le sorti di questo precario equilibrio fu nell’anno 1977, durante il quale, in maggio, vinse le elezioni israeliane la coalizione di destra del Likud, e il governo passò nelle mani di Menachem Begin; in dicembre, Sadat volò a Gerusalemme e pose le basi del processo che si sarebbe concluso positivamente a Camp David due anni più tardi.
Nel ‘79 la Siria si schierò immediatamente, insieme all’Algeria, alla Libia, all’Iraq e allo Yemen del Sud nel cosiddetto Fronte del rifiuto che si opponeva ad ogni trattativa col “nemico sionista” e chiedeva l’espulsione dell’Egitto dalla Lega Araba. I Falangisti di Bashir Gemayel, viceversa, si avvicinarono sempre più ad Israele.
Gli anni compresi fra il ‘78 e l’81 furono dunque segnati dallo scontro fra Maroniti e Siriani e dalla ripresa generale della guerra civile, sulla quale si abbatté come un ciclone l’invasione israeliana del Libano, di cui tratteremo nell’apposito capitolo.