L’accordo di Camp David fu seguito dal disimpegno israeliano dalla penisola del Sinai; tuttavia, a causa del continui attacchi terroristici da parte dell’OLP, Israele non fece nulla per rispettare la seconda parte dell’accordo, che prevedeva il riconoscimento di un’autorità palestinese indipendente.
Nei due anni che seguirono l’accordo di Camp David infatti i terroristi palestinesi che operavano in Europa uccisero 39 civili. Inoltre, nel nord di Israele vi era un costante bombardamento sui villaggi ebraici della Galilea con missili provenienti dal Libano, dove l’OLP si era spostata in seguito al Settembre Nero e dove era in corso già da anni una sanguinosa guerra civile tra etnie.
Il 3 giugno 1982 a Londra, in un attentato dell’OLP rimase gravemente ferito Shlomo Argov, l’ambasciatore israeliano in Gran Bretagna. In seguito a questo avvenimento e all’incessante bombardamento sul nord di Israele, il 6 giugno le forze dell’IDF lanciarono l’operazione Pace in Galilea, un’invasione del sud del Libano atta a distruggere l’OLP come movimento combattente. La mente principale dell’invasione era il ministro della Difesa del governo presieduto da Begin, Ariel Sharon.
Begin aveva autorizzato un limite di avanzata di 40 kilometri, oltre cui i guerriglieri palestinesi sarebbero dovuti esser stati allontanati. Sharon inizialmente seguì questa indicazione ma poi, anche a causa del tacito appoggio degli Stati Uniti, non arrestò l’avanzata dei carri armati israeliani entro i limiti preannunciati, proseguendo fino alle soglie di Beirut.
I cristiani maroniti si schierarono apertamente a fianco dell’esercito israeliano; i drusi si tennero in disparte, mentre gli sciiti delle regioni meridionali del Libano, stanchi dello strapotere palestinese, accolsero i carri armati di Israele come salvatori. Per oltre due mesi le truppe israeliane cinsero d’assedio Beirut, dove si erano asserragliati lo stato maggiore dell’OLP e i guerriglieri palestinesi, mentre i due terzi della popolazione civile palestinese (140 mila persone) fuggirono verso il nord e verso la valle della Bekaa, controllata dalle truppe siriane (che peraltro, avendo tentato di bloccare l’avanzata israeliana, avevano subito pesanti perdite).
Il 3 settembre infine i palestinesi si arresero, e – mentre Arafat e un gruppo di irriducibili continuavano la resistenza a Tiro (da cui si sarebbero ritirati solo nel dicembre del 1983) – si rassegnarono ad abbandonare il Libano e a trasferire in Tunisia il quartier generale il quartier generale dell’OLP e dei gruppi armati.
Tuttavia la guerra civile già in corso nel paese non terminò e il 14 settembre Bashir Gemayel, il leader dei cristiani maroniti, rimase ucciso. I civili palestinesi rimasti nei campi profughi attorno a Beirut, dopo il trasferimento del quartier generale dell’OLP in Tunisia, si trovarono del tutto indifesi. Tra il 16 e il 17 settembre 1982 le milizie falangiste cristiano-maronite, in seguito alla perdita del loro leader, entrarono nei campi di Sabra e Chatila e perpetrarono un’orrenda strage: la stima delle vittime fu di oltre 800 persone, tra cui anche donne e bambini. L’esercito israeliano tuttavia aveva il controllo di quella zona; Sharon fu giudicato, nel febbraio 1983, da una commissione di giustizia israeliana, indirettamente responsabile della strage per non aver agito efficacemente per impedirla. In seguito a ciò, dovette rassegnare le proprie dimissioni da ministro, anche se rimase nel governo.
Nel mondo e in Israele il colpo fu terribile. Mentre l’ONU inviava a Beirut una forza multinazionale di pace (i contingenti americano, francese e italiano arrivarono a destinazione già tra il 24 e il 29 settembre) a Tel Aviv il 25 settembre centinaia di migliaia di dimostranti protestavano in piazza contro i massacri. Il bilancio della guerra in Libano era elevato: i morti erano oltre 3000 tra i guerriglieri dell’OLP, 368 tra i soldati israeliani e circa 500 civili libanesi.
Il terrorismo islamico, per ritorsione, si scagliò in Libano contro la Forza multinazionale, simbolo ai suoi occhi delle connivenze occidentali con Israele. Il 18 aprile 1983 un’autobomba distrusse letteralmente il quartier generale americano a Beirut, provocando oltre una sessantina di morti; altri attentati colpirono i contingenti francese e inglese. Anche all’interno di Israele la situazione non era tranquilla: nel dicembre 1983 l’OLP rivendicò un’attentato su un autobus a Gerusalemme, dove rimasero uccisi sei civili, due dei quali bambini. Dal confine meridionale libanese un’unità militare dell’OLP sparò dei missili sulla città israeliana di Kiryat Shmonà – fondata 30 anni prima per assorbire gli ebrei rifugiati dai paesi arabi. Fortunatamente nessuno rimase ucciso, ma la popolazione dovette passare molto tempo nei rifugi antimissile per salvarsi.
Anche dopo la partenza della Forza di pace dell’ONU, avvenuta nell’84, gli occidentali rimasero esposti ai colpi della Jihad islamica libanese (Jihad = “Guerra santa”), che cominciò a sequestrare diplomatici e giornalisti americani ed europei. L’esercito israeliano, dal canto suo, completò il ritiro dal Libano nel giugno dell’85, mantenendo il controllo di una “fascia di sicurezza” profonda circa 40 km, nella quale continuò a scontrarsi coi guerriglieri Hezbollah – sostenuti dall’Iran e agevolati dalla complicità siriana – e ad essere oggetto dei loro agguati terroristici.
Lontana da Israele e relegata in Tunisia, l’OLP, nonostante i vari attentati di cui si era resa artefice, si ritrovò sconfitta e impotente: al suo interno la leadership di Arafat fu violentemente contestata dai gruppi più radicali, che guardavano alla Siria come all’unico paese in grado di sostenere ancora con efficacia la causa palestinese. Eminenti personalità dell’Organizzazione furono assassinate dai servizi segreti israeliani del Mossad, e lo stesso quartier generale dell’OLP venne bombardato dall’aviazione d’Israele il 1 ottobre del 1985.
Il Libano dopo la guerra civile
Al progressivo ritiro israeliano dal Libano, fatta eccezione della fascia di sicurezza, seguì l’avanzamento dell’influsso siriano che impose la “sua” pace riducendo il Libano alla condizione di protettorato. Sotto tutela siriana un nuovo Patto Nazionale fu sottoscritto il 22 ottobre 1989 dalle varie comunità libanesi: e in base a tale Patto i poteri del capo dello Stato vennero drasticamente ridotti a favore dei poteri del Primo Ministro e del Presidente del Parlamento. Si stabilì inoltre che i seggi parlamentari fossero ugualmente ripartiti fra cristiani e musulmani. Si ordinò anche che le varie milizie venissero sciolte, disposizione che provocò l’immediata rivolta dell’ex comandante in capo dell’esercito libanese, il cristiano Michel Aoun, che peraltro dovette arrendersi il 15 ottobre 1990.
Il 22 maggio 1991 i presidenti siriano e libanese firmarono un trattato che in pratica legittimava l’egemonia siriana sul Libano.